Social media, identità del brand ed effetto gregge.
Daria Grimaldi
Pubblicato il 10 Febbraio 2025
La sfida dei brand nell’era delle vanity metrics
Tra i 5 e passa miliardi di utenti attivi sui social, in media, ciascuno trascorre 2 ore e 23 minuti al giorno scrollando la feed; 8 minuti in meno rispetto allo scorso anno che, probabilmente, passa su chat private e community, dove preferisce condividere contenuti visti nelle precedenti 2 ore e un quarto.
Nel 38 % dei casi è sui social per passare il tempo, quindi solo per intrattenersi.
Aggiungiamo a questo scenario il proliferare di tools che offrono aesthetics su misura per ogni app, belle e pronte per attrarre e ingaggiare il pubblico, a cui basta aggiungere qualcosa che può suggerirti l’AI di turno.
Ma se ci si ferma un momento, nasce spontanea la domanda:
come si può essere social al tempo dei social, senza essere mediocri? E, soprattutto dove finisce la brand identity ?
La risposta come sempre [allerta spoiler!] noi di Blend, andiamo a cercarla nella psicologia sociale e nel blur design.
C’è chi ha l’ansia da prestazione e chi mente.
Nell’epoca in cui tutti cercano di ritagliarsi un metro quadro di celebrità in rete, usare un meme, seguire un trend virale, lasciare che sia la piattaforma, l’ultima proposta di Canva o dell’AI a suggerirti il contenuto, appaiono come i modi più sicuri per aumentare la propria visibilità. L’effetto gregge (o bandwagon) nell’ideazione di contenuti social, appare come il modo più veloce per creare contenuti acchiappalike, far crescere in numerosità il profilo e garantirsi metriche interessanti e, magari, anche interazioni.
Avete presente la celebre domanda di Nanni Moretti in Ecce Bombo “mi si nota di più se non vengo o se vengo e mi metto in disparte?“. Forse è una citazione un po’ boomer, ma il dilemma, mentre costruiamo calendari editoriali per i clienti, è esattamente quella del regista. Creiamo un contenuto di moda o uno identitario? Probabilmente in media stat virtus e comprendere l’algoritmo, trovando il proprio linguaggio, sarebbe la chiave perfetta, ma non sempre, non con tutte le piattaforme né con tutti i clienti è possibile. Nell’ overload informativo della comunicazione digitale riuscire a mantenere il focus sull’identità, lo storytelling e il target del brand, con il beneplacito dei clienti, è una sfida colossale.
Ma forse l’unica che, a lungo termine, possa difendere la reputazione del marchio e renderlo differenziante.
La strategia del camaleonte e l’algoritmo nella mente.
Adottare la strategia del camaleonte, trovando il proprio vantaggio nell’adattamento delle proprie apparenze, è senza dubbio unmodo efficace per non restare indietro nell’incedere vertiginoso dei luoghi e dei modi del comunicare.
Tra i tanti possibili, mi soffermerei su due punti di vista principali da cui partire: una di tipo tecnico e una di ordine psicologico.
L’algoritmo comanda come il comandante di Full Metal Jacket e noi soldati non possiamo far altro che obbedire. Non se ne esce.
Il “comandante” tende a favorire di volta in volta le pagine “popolari” (da un mero giudizio quantitativo), i post più condivisi, quelli più ingaggianti, ragion per cui l’utilizzo dei social network per fini commerciali richiede investimenti in sponsorizzazioni per dare visibilità ai contenuti, pena il più totale anonimato digitale.
Questo meccanismo inevitabilmente avvantaggia chi dispone di maggiori risorse economiche. Sì, anche l’idea geniale, ma rara più del fiore perfetto dell’ultimo samurai, di solito anche quella è accompagnata da interessanti investimenti in sponsorizzazione urbi et orbi.
Senza entrare troppo nel dettaglio, ogni strumento ha il suo codice di comportamento, che risponde darwinianamente all’esigenza di attirare un maggior numero di persone. Più persone, più pubblicità, più soldi (per la piattaforma) e più visibilità (per il brand). In questo circolo virtuoso chi urla a squarciagola “ci sono anch’io” è l’identità del brand, per buona pace di Kapferer, del suo prisma e della necessità di mantenere coerenza e tono di voce differenzianti.
Le metriche dei social media si concentrano tutte sui numeri: il numero di follower, i like, i click, il tempo di permanenza, così, per l’awareness di un brand, raggiungere molte persone è dannatamente utile per essere lì. Siamo tutti d’accordo. Diversamente saremo quelli vestiti male ad una festa, che non sanno ballare e restano in un angolino e difficilmente qualcuno si avvicina a chi resta in disparte, pena l’essere accomunato a chi è considerato diverso.
Difatti, i meccanismi psicologici alla base sono gli stessi di sempre: il principale è il familiare principio della riprova sociale di Cialdini. Gli utenti tendono ad essere influenzati dalle azioni degli altri utenti, dando peso alle opinioni e alle azioni di coloro che li circondano. Questo influisce sulle decisioni dell’utente di seguire la pagina, condividere il contenuto o impegnarsi a vari livelli con il brand.
Se piaci a tante persone, piaci anche a me: la psicologia del gregge è la padrona.
Sappiamo bene che l’apparente democraticità e gratuità dei social è il “grande inganno” del nostro tempo e sappiamo che il processo che ci fa passare ore a scrollare o a creare il post perfetto è esattamente quello di “essere popolari” così da rispondere al più impellente principio psicosociale dell’animale sociale: l’appartenenza al gruppo.
Il comportamento umano è fortemente influenzato dalla ricerca di approvazione e riconoscimento e questo è un dato di fatto.
Online tutti i nostri meccanismi cognitivi sono i più classici della psicologia di massa, manipolati ad arte da chi li conosce e li usa a proprio vantaggio.
Sia chiaro, la riprova sociale non è di per sé una perversione manipolatoria, ma un meccanismo naturale di persuasione, legato al nostro essere animali sociali, che oggi sui social è estremamente potente, per quanto senza dubbio abusato acriticamente.
Tuttavia, questo può essere un’arma a doppio taglio per i brand che allettati dai numeri rincorrono una popolarità omologante online, che può rivelarsi controproducente in ottica di identità differenziante e reputazione a lungo termine.
Non si può piacere a tutti.
Come sottolinea Kotler, analizzando il marketing 5.0, nell’era digitale il problema non è più la mancanza di dati, quanto piuttosto l’identificazione dei “dati rilevanti”.
Può essere facile cadere nella tentazione di usare i numeri come faro e avere come unico mantra quello di volerli aumentare, con il rischio che diventi una vera e propria “corsa per la massa“, che spinge chi gestisce le pagine business a creare contenuti solo per raggiungere più persone, ovunque, a prescindere dagli obiettivi di comunicazione, dal target, dal Tono di voce.
A diventare trasparenti sono magicamente i clienti. Sono le persone con cui si voleva instaurare una rete, una relazione, una conversazione. Come afferma Godin, è proprio questo che diluisce il potere della comunicazione, andando inevitabilmente incontro al rischio di creare qualcosa che tutti vogliono, si paga poi lo scotto di diventare mediocre.
I social media, se usati come media di massa, perdono il loro potere. Puntare sulla mediocrità è sprecare un mezzo che può attrarre potentemente persone appassionate. Per potenziare le opportunità dei social media le pianificazioni andrebbero incentrate sui micro mondi, come dice Godin, “parlare a qualcuno e non a tutti”,individuare il pubblico più piccolo ma concreto che voglia realmente costruire una relazione.
Branding visibile e invisibile anche sui social
Diciamolo senza troppi giri di parole: spiegare ai non addetti ai lavori l’utilità o meno dei numeri è decisamente faticoso, rispetto alla più semplice e gratificante possibilità di riportare performance formidabili travestite da evidenze di successo. Un post da migliaia di like per il cliente è segno di successo senza obiezioni (ma quanti di quelli sono o diventeranno clienti?).
Tutto il sommerso della comunicazione, che ha a che fare con valori, posizionamento, vantaggio competitivo, memorabilità, non sono direttamente misurabili dagli insight della piattaforma. Per quanto si vogliano raccontare come oggettivi i numeri, è nella loro interpretazione che si costruisce il significato, perché per quanto possano sembrareimpressionanti, non raccontano tutta la storia ma solo una parte della realtà, che non può essere in alcun modo scollegata da quanto a parlare sia effettivamente la personalità del brand.
Rimane importante trovare un equilibrio tra l’adattamento al potere degli algoritmi, le tendenze del momento e il mantenimento di un’identità solida e riconoscibile, intercettando la reale community interessata al servizio o al prodotto, se si ha un progetto a lungo termine.
Una conclusione che apre il dibattito: il blur come metodo.
Un modo efficace è adottare una vision Blur, che consideri la presenza social come un tassello della costruzione di una identità organica, in quanto tale complessa e sfaccettata, esattamente come lo è quella degli utenti che in quel brand dovrebbero identificarsi. Ilblur design è trovare nell’indistinto dei luoghi e degli strumenti, un metodo organico che permetta di emergere al netto delle lusinghe digitali confuse per efficacia.
PS:
Una postilla che ci frulla in testa, per altro, è il tema della sostenibilità digitale e dell’impatto che anche i nostri contenuti online generano, ma quello è ancora un altro discorso.
Libri d’ispirazione.
Godin, S. (2018). Questo è il marketing. ROI Edizioni.
Solomon, S., & Fernbach, P. (2017). L’illusione della conoscenza. Einaudi.
Kotler, P. (2021). Marketing 5.0: Technology for Humanity. Wiley.
Ruffino, P. (2022). Neuro Branding. Hoepli.
Bouvet, J.-F. (2001). La strategia del camaleonte. La simulazione del mondo vivente. Raffaello Cortina, Milano.
Daria Grimaldi
Partner e Project manger & digital strategist dello studio Blendlab Comunicazione
Docente esterno di psicologia dei gruppi presso Università Suor Orsola Benincasa
Consulente e formatrice in psicologia sociale della comunicazione